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18 September 2025
L’approvazione definitiva da parte dell’Unione Europea della normativa che introduce la Responsabilità Estesa del Produttore (EPR) per il settore tessile rappresenta un passo importante ma non risolutivo nella lotta contro l’impatto ambientale della moda e del fast e ultra fast fashion. Lo afferma Slow Fiber, la rete di imprese italiane impegnate nella promozione di una filiera tessile più sostenibile, responsabile e trasparente. La direttiva impone ai produttori – inclusi quelli che operano tramite e-commerce, anche da Paesi extra-UE – di coprire i costi di raccolta, selezione e riciclo dei prodotti tessili immessi sul mercato europeo. Ma per Slow Fiber, senza un ripensamento radicale dei volumi di produzione e consumo, e una rivoluzione nella cultura dell’acquisto e dell’uso di prodotti tessili (comprare molto meno ma meglio), la normativa rischia di affrontare solo gli effetti e non le cause dell’emergenza rifiuti nel settore tessile.
“La gerarchia dei rifiuti ci dice chiaramente che il primo obiettivo dev’essere produrre meno rifiuti. Ma questo richiede uno sforzo culturale, che oggi manca completamente nell’impianto europeo: consumare meno, consumare meglio, e allungare la vita utile dei prodotti. Non possiamo pensare che il riciclo – oggi ancora largamente inefficiente – sia la soluzione a tutto”, spiega Dario Casalini, Presidente di Slow Fiber. Attualmente si stima che meno dell’1% dei vestiti viene riciclato in nuovi prodotti di abbigliamento (fonte: Ellen MacArthur Foundation, “A new textiles economy: Redesigning fashion’s future – Summary of findings” 2017, pag. 20).
Secondo Slow Fiber, la tecnologia non è ancora pronta per reggere l’enorme mole di rifiuti generata da un sistema basato sulla sovrapproduzione, in particolare nel fast e ultra fast fashion. La plastica, ampiamente utilizzata nei capi sintetici, presenta tassi di riciclo sempre più bassi (e le stime considerano le quantità conferite negli impianti di riciclo, non quelle effettivamente riciclate che sono molto inferiori a causa di inquinamento e tipologia dei materiali conferiti), mentre la lana – tra le fibre più riciclate – e le altre fibre naturali potrebbero trovare anche altri impieghi, come nel settore agricolo, se non contaminate da chimica pericolosa.
Altro nodo centrale è quello della responsabilità estesa del produttore: “Tutto bene, finché non continuiamo a spedire i nostri scarti in Africa o in Asia. Se i volumi restano quelli attuali e la capacità di riciclo è ferma a percentuali irrisorie, il rischio concreto è che si torni a pratiche insostenibili: incenerimento o dumping ambientale nei Paesi in via di sviluppo. La responsabilità deve essere territorializzata: ogni Paese consumatore deve farsi carico del proprio impatto”, continua Casalini.
Infine, Slow Fiber solleva dubbi anche sul sistema di contribuzione economica previsto dalla direttiva: “Una maglietta in poliestere e una maglietta in cotone organico, cucita per durare, non dovrebbero costare allo stesso modo in termini di EPR. Serve un sistema che tenga conto della composizione, della durabilità, della disassemblabilità e dell’impatto chimico dei capi. Senza queste distinzioni, si penalizzano le aziende virtuose e si premia chi produce a basso costo e ad alto impatto.”
In sintesi, per Slow Fiber la responsabilità estesa ai produttori è un principio giusto, ma deve essere accompagnato da:
• una riduzione strutturale della produzione tessile;
• investimenti reali in ricerca e innovazione per il riciclo;
• criteri differenziati e trasparenti per parametrare i contributi;
• un impegno europeo a non esportare rifiuti tessili all’estero, soprattutto verso i Paesi più fragili.
“Il tessile non è paragonabile ad altri settori come l’industria elettronica o degli pneumatici, dove si sa com’è fatto il prodotto e come smaltirlo. Ha variabili enormi: culturali, sociali, tecniche produttive, materiali utilizzati. Servono regole intelligenti, non semplificazioni pericolose.”
Esperienze normative come quelle adottate in Francia, che cercano di frenare l’espansione del fast e ultra fast fashion attraverso strumenti regolatori, rappresentano un segnale importante e coraggioso. Tuttavia, l’enorme volume del fenomeno – con oltre 4,5 miliardi di pacchi importati nell’UE nel solo 2024, spesso fuori da ogni controllo doganale – e la difficoltà di definire con chiarezza quali prodotti rientrino davvero nei modelli di iperproduzione e spreco, mostrano i limiti strutturali di un approccio puramente normativo.
“Il cambiamento, per essere davvero efficace, deve essere innanzitutto culturale e condiviso: senza un’evoluzione dei comportamenti d’acquisto e del nostro rapporto con i beni tessili, anche le migliori leggi rischiano di produrre effetti collaterali indesiderati, come la progressiva desertificazione commerciale dei centri urbani” conclude Casalini.
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